
11/05/2025
Ferma al bar di Portoferraio, in attesa di imbarcarmi per il rientro, scorro le foto e i video degli ultimi 7 giorni.
Ho moltissimi pensieri in testa e il tempo mi sembra sospeso: che cosa raccolgo da questa esperienza è ancora non ben definito e credo che mi serva un po’ di tempo per riuscire a cogliere quanto sia stato importante per me attraversare l’isola d’Elba in solitaria.
Camminare da sola mi ha necessariamente “obbligato” ad essere più attenta e più aperta nell’ascolto di ciò che accadeva fuori e dentro di me: ho parlato da sola, ho riso e cantato da sola, mi sono emozionata, ho inventato piccoli “trucchi” per scacciare pensieri ostili: per esempio quando entravo in un bosco dove la presenza di cinghiali era ben visibile, sbattevo due volte le bacchette tra di loro e cominciavano a cantare FOLLOW THE SUN di Xavier Rudd.
Lo facevo come un piccolo rituale magico, una sorta di incantesimo, pensando che il rispetto e l’umiltà con i quali entravo nel bosco fossero amplificati dal mio gesto, una sorta di richiesta per un lasciapassare.
Camminare da sola, nel bosco o in montagna, si a volte fa paura e io accettavo e affrontavo questa paura cantando e seguendo il sole.
Mi sono raccontata, ho creato immagini, pensieri, ho risolto massimi sistemi, sono stata in silenzio e mi sono meravigliata di ogni piccolo pezzo di terra pieno di vita, perché quando sei sola ogni cosa ti fa compagnia.

Una volta mio marito mi ha detto “io vorrei passare per la vita come fanno le barche a vela: senza lasciare traccia”.
È un’immagine tanto semplice quanto potente perché spiega perfettamente come dovrebbero essere i nostri passi su questo mondo, semplici e silenziosi.

Penso invece a ciò che stiamo lasciando nel mondo, alla sofferenza che infliggiamo ad altri esseri viventi, umani e non, al segno profondo del nostro passare in questa vita: siamo una specie davvero molto complessa, composta da una varietà di “tipi” molteplici e contrastanti, anche in cammino questa diversità mi era ben chiara, la sera alla fine della tappa, quando mi ritrovavo a condividere la cene e le chiacchiere con gli altri camminatori.
C’è chi vive il cammino come allenamento fisico, chi in modo più introspettivo, chi come una sfida e chi come una cura.
C’è un valore però che dovrebbe accumunare tutti: l’umiltà. Quando si entra in un bosco, o in un ambiente che oramai non è più il nostro ambiente (non viviamo più nelle foreste già da un po’), dovremmo farlo con un senso di ritorno alle origini, con la consapevolezza che stiamo attraversando un luogo che è ancestralmente legato a noi, che è il luogo da dove veniamo e nel quale la nostra specie ha mosso i primi passi.

Sono passati millenni e penso che se da un lato lo sviluppo della mia specie, sotto alcuni punti di vista, è stato rapidissimo, allo stesso tempo l’evoluzione “emotiva” non lo è stata altrettanto.
Non credo sia più possibile una consapevolezza collettiva nella ricerca di una pace duratura: questo periodo è così crudele e in questi giorni così pieni di malvagità la sopravvivenza di molti, troppi, è priorità, e gli ultimi della terra, i deboli, le vittime quotidiane, sono sempre le stesse.
Mi sembra così semplice a volte e il mio pensiero, forse troppo elementare, mi porta ad una risoluzione dei conflitti in modo quasi magico: è che davanti alla bellezza della natura mi sembra tutto così logico, quasi ovvio, e mi chiedo come si possa sporcare la propria mente e il proprio cuore con dei pensieri di sopruso e potere.
L’ho detto e scritto molto spesso: non mi sento una persona colta, non ho strumenti per una lettura della realtà articolata e complessa come quella che stiamo vivendo, ma credo che la natura abbia il potere di riportarci alle origini di ciò che eravamo: creature che vivevano in totale simbiosi con l’ambiente circostante, esseri che utilizzavano solo il necessario, consapevoli (o forse no) di far parte di un unico grande UNO.

Sono passati diversi giorni dall’ 11 maggio, ho riletto le riflessioni e gli appunti di quei giorni, ho riguardato le immagini, i video, ho ripensato alla GRATITUDINE di quel regalo immenso che mi è stato concesso, il semplice quanto IMMENSO poter stare lì e mi viene da chiedere scusa all’umanità tutta per ciò che la mia specie non è riuscita a fare o per ciò che sa fare fin troppo bene: DISTRUGGERE.
Vorrei concludere queste righe con un pensiero positivo: so che siamo in tanti ad essere afflitti dai mali di quest’epoca e spesso negli sguardi degli altri trovo la mia stessa sofferenza: non sono sola, non lo siamo, dobbiamo solo stare vicini e riconoscerci, dobbiamo continuare ad alzare la voce anche per chi non ce l’ha più.
ABBIAMO IL DOVERE MORALE DI FARLO.

Grazie GTE (grande traversata elbana) per ciò che mi hai permesso di vivere e capire.
Ale.
